La mia Expo: alcune dritte per come l’ho vissuta io

Prima di tutto un giorno non basta per l’Expo. Non solo per vederla tutta (che poi perché uno dovrebbe?) ma anche solo per vedere tutti i padiglioni che ti interessano. Diciamo che una giornata intera dall’apertura dei cancelli (consigliato arrivare una mezz’ora prima e mettersi in fila per avere vantaggio sulla massa e fiondarsi subito sui padiglioni più “difficili”) alle dieci di sera, in un giorno non di ressa, senza fare troppe file, dovrebbe consentire di vedere tra i 20 e i 30 padiglioni. Ma una selezione la devi comunque operare, e anche piuttosto radicale: la operi sulla base di quello che hai sentito dire, e sui paesi che più ti incuriosiscono.

Dalle 9 alle 22, con rapide pause per mangiare al volo qualcosa fuori dagli orari di punta dei pasti (metodo consigliato), nel giorno più affollato dell’anno (Ferragosto) siamo riusciti a vedere meno di 20 padiglioni: Nepal, Bahrain, Angola, Corea del Sud, Vietnam, Malesia, Thailandia, Cina, Argentina (solo ristorante), Polonia, Iran, USA, Marocco, Russia, Turkmenistan, Estonia, Indonesia, Oman.

Un’altra decisione da prendere è se rinunciare ai padiglioni con le code più lunghe (Giappone, stati della penisola arabica come Emirati, Qatar e Kuwait, Germania e alcuni altri). In generale, i padiglioni progettati in modo “open” hanno al massimo un 20’ standard di fila, quelli a percorso obbligato (Cina, Brasile, per citare i più grandi) o con esperienze individuali (come gli Emirati che, credo, ti danno un tablet) ne hanno di più, fino all’ora e 40’ del Giappone, che ha progettato un percorso sensoriale forse un po’ troppo ambizioso. La Svizzera ha delle regole di accesso che ti sembra di essere un immigrato clandestino. Il Brasile si può visitare evitando la coda, che è solo per l’accesso alla grande rete sospesa in stile Avatar (secondo me val la pena di cercare di raggiungerla da dentro, ma non mi è ben chiaro come).

Non perdetevi (e scommetto che normalmente non ci sareste andati) il cartone animato 3D sulla storia della Polonia: mille anni di storia in 10’ di animazione molto ben congegnata e realizzata in modo più che dignitoso: niente testi, solo immagini, veloce e comprensibile, con transizioni ingegnose tra le epoche. Bravi.

Il padiglione russo è bruttone nel suo reinterpretare il mausoleo socialista in acciaio e vetro, ma contiene cose curiose (la tavolona periodica di Mendeleev, il bar-laboratorio chimico), ed è ottimo per un aperitivo a base di vodka siberiana Beluga con tartine al rafano (3,5 a shortino, che è un prezzo ragionevole per essere all’Expo).

Esperienze WTF: il padiglione del Nepal, visto deserto perché presto, ma soprattutto tenendo in mente il terremoto. Il padiglione USA, una sorta di magazzino senza arte né parte, privo di qualunque connotazione storica, culturale o artistica. Gradevole come visitare un terminal di aeroporto senza avere nessun volo da prendere.

Per farsi quattro risate sono ottimi i film di pura propaganda di regime della Thailandia, con una celebrazione della figura del Re che non sfigurerebbe in Corea del Nord (mi chiedo come gliel’abbiano permesso, è davvero tremendo, roba da ridere forte). Ma no, quelli risparmiateli pure.

Conclusione: è una via di mezzo tra un festivalone dell’Unità (quelli nazionali dei bei tempi andati) e un parco attrazioni; i padiglioni oscillano tra il didascalico/didattico, il museale impolverato dei paesi meno ricchi e più peroiferici, fino all’ingegnoso-appassionante in alcuni casi: esperienze da bocca aperta ce ne sono forse un paio.

Sopra la media la Corea del Sud per la tecnologia, l’Angola e il Marocco per come si raccontano (l’Africa sembra ancora una volta fonte delle migliori narrazioni), Vietnam e Indonesia per i colori e l’allegria delle performance tradizionali di canto e ballo –  che se fossimo vientamiti o indonesiani troveremmo sicuramente imbarazzanti.

Pochissimi quelli che hanno trattato in modo ragionato e maturo il tema della manifestazione, ovvero come progettare uno sviluppo sostenibile che consenta di sfamare più persone possibili con il minimo impatto ambientale. Temi come la sovrappopolazione, la resa delle coltivazioni, le emissioni delle attività agricole e dell’allevamento, gli OGM, la gestione dell’acqua, lo spopolamento degli oceani, sono trattate quasi sempre in modo didascalico, generico e superficiale. Il tono in genere è da temino delle medie, pensato più per i bambini che per gli adulti.

 

Cose pratiche: vale la pena di comprare ingredienti di cucina che non trovi altrove, spezie e cioccolato nei cluster dedicati, qualche souvenir a cui tieni particolarmente, forse.

I vietnamiti sono deliziosi ma non mi hanno venduto il loro fantastico caffè, maledetti.

Fra treni, biglietti, due o più pasti (quando sei lì ti vien voglia di provare), qualche drink e qualche acquisto, calcola tra i 150 e i 200€ di spesa a testa. Portati il thermos che per l’acqua ci sono i distributori, cosa ASSAI civile che tutte le manifestazioni dovrebbero imitare.

Ma il consiglio migliore è quello di Enza: parla con gli addetti ai padiglioni. Sono quasi tutti disponibili e in grado di comunicare almeno a livello basico in inglese: imparerai più cose così sulla vita delle persone che leggendo i temini sulle pareti.

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Nella foto, le ballerine tradizionali indonesiane che, appena terminato il numero, si fiondano nel retro a consultare l’Internet. Che è, insieme allo smartphone, il vero tratto che unisce tutti i popoli presenti.

evitando le buche più dure

ritengo di essere sempre stato una persona adattabile, nel senso che più o meno dove mi metti sto, senza lamentarmi troppo. forse per pigrizia, o forse per una sorta di pudore, considerata la mia posizione di estremo privilegio rispetto all’enormità del variegato spettro delle sofferenze umane e animali. una visione probabilmente influenzata dal marxismo e dall’ambientalismo, nella misura in cui – al momento di valutare il mio livello di comfort – tiene conto di quello medio dell’intera specie umana, nonché dell’irrilevanza del mio benessere rispetto a quello del pianeta.

questo non significa che non apprezzi il comfort, e che non abbia un’idea precisa di quali sono le situazioni in cui mi trovo a mio agio. ed è già da qualche tempo che ho scoperto che una delle condizioni in cui sono più sereno e felice – al netto delle poche ma preziosissime relazioni sociali e affettive che coltivo – è quella in cui mi trovo sotto il pelo di acqua cristallina in presenza di pesci e altre creature marine.

potrete immaginare che la possibilità di farlo con la persona che amo rende il tutto ancora più prezioso, raro, un generatore di schietta felicità. la fortuna di poterlo fare, oltre a quella di essersi trovati a vicenda, sta nel privilegio a cui accennavo sopra, entro il quale siamo nati e cresciuti e a cui non pensiamo mai abbastanza: una società libera da guerre, ragionevolmente civile ed evoluta, senza gravi discriminazioni di razza o di credo, reduce da decenni di pace e boom economico, in cui la tecnologia ci consente di viaggiare seduti a velocità elevatissime a migliaia di metri da terra. noi, fortunatissimi esemplari della specie umana che possiamo andare in vacanza, a cercare quello che ci pare, nello specifico l’acqua e i pesci che vi nuotano.

perché stavolta si parte per il mare: niente capitali mitteleuropee, questa volta. addio al cemento e alle bici sgarrupate di Berlino, addio ai lungofiume di Parigi e Budapest, addio ai palazzi e alle terme liberty. addio ai graffiti, trait d’union di qualunque città abbia visitato negli ultimi 15 anni. noi andiamo al mare.

 

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la Côte Bleue: perché sceglierla, dove soggiornare, cosa fare

la Côte Bleue è la parte di costa mediterranea francese a ovest di Marsiglia, poco dopo la Costa Azzurra venendo dall’Italia. quella di cui parlo qui è la parte immediatamente precedente, quella che da Tolone si estende fino a Marsiglia, e comprende le famose calanques (drammatiche cale rocciose e scoscese che in alcuni casi ricordano fiordi in miniatura), che si trovano tra Marsiglia e La Ciotat, e a ovest di Marsiglia.

scegliere la Côte Bleue significa evitare l’irritante fighettismo, i prezzi e l’inurbazione della Costa Azzurra per scegliere un tratto di costa con ambizioni turistiche meno sfrenate e più recenti, in cui grazie alla presenza di un parco nazionale protetto non è stato sfruttato turisticamente ogni centimetro disponibile.

le città papabili per un soggiorno di questo lato di costa, detta “blu” per il colore delle sue acque, davvero cristalline e impeccabili, sono principalmete la Ciotat e Cassis. Cassis ha un’aria chicster e molto ambita turisticamente che non me ne ha fatto innamorare, mentre la Ciotat è una graziosa città portuale in cui il porto non la fa da padrone, ancora appena lambita dall’industria del turismo, vivibile e sostenibile.

la cosa veramente figa da fare in zona – al di là del gustare un’ottima cucina provenzale di terra che quando si cimenta con il mare non trova altrettanta ispirazione e creatività – è visitare le calanques. sentieri praticabili da tutti (con un buon paio di scarpe da hiking) portano in calette deliziose, in cui fare il bagno e prendere il sole è un piacere. sopra tutte, quella ultrafamosa Calanque d’En-Vau, una delle dieci spiagge più belle del mondo secondo il New York Times, il che si riflette sull’affollamento nonostante i 4 km di sentiero scosceso per arrivarci. ma comunque uno spettacolo indimenticabile, sia vista da sotto che da sopra (sul sentiero, classica escursione da primo giorno e consigliatissima, che da Port Mieux passa per Port Pin e arriva alla panoramica sopra d’En Vau). in auto, da non perdere a nessun costo la Route des Crêtes, che con tornanti ampi e sicuri serpenteggia sulla cresta montuosa con una vista pazzesca su tutta l’area.

merita anche l’escursione(10′ di traghetto) all’isola verde prospiciente La Ciotat, dove un sentiero circolare e diverse calette consentono un buon contatto con la natura. più che quella in barca alle calanques dove si sta impaccati a bordo di una barca con decine di altri turisti sudati a guardare quelli che prendono il sole nelle cale.

dormire con Airbnb mi sembra la soluzione migliore (questo appartamento è fantastico), bere molto vino bianco e soprattutto il rosé tipico della zona mi sembra altrettanto consigliabile, così come godersi la luce du Midi, l’atteggiamento easy e conciliante degli abitanti, i frutti della gastronomia locale, le acque blu e le spiagge accoglienti. jouissez.

 

la Calanque d’En-Vau vista da sopra

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il porto di La Ciotat

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salamino e Moncestino fanno rima

scrivevo di Fioly e del suo libro nel penultimo post, che chiudevo con l’intenzione di fare una specie di reportage della Sagra del Salamino di Moncestino, presa a esempio di cosa riesce a essere una sagra popolare piemontese – che poi è nello spirito e nei fatti piuttosto simile a cosa riesce a essere una sagra popolare in Romagna e più o meno in qualunque parte d’Italia.

reportage magari no ma qualche osservazione sì:

– in Romagna le sagre sono eventi di paese destinati a un consumo ampio e inclusivo: il senso della Romagna per il business fa sì che la sagra di paese serva per il 25% a far divertire e cementare i rapporti della cittadinanza, e per il restante 75% a attirare turisti. in Piemonte a malapena ti mettono uno striscione al confine del paese, e per arrivare dallo striscione alla sagra sono affari tuoi (perché tanto “lo sanno tutti dov’è”).

in Liguria probabilmente puoi scordarti persino lo striscione: se non sai dov’è stattene a casa.

– a quella di ieri grazieaddio non si ballava, ma ho scoperto l’anno scorso con orrore, sempre nel Monferrato, che c’è un solo genere musicale considerato ballabile in tutte le sagre di paese del nord Italia, ed esso è il liscio romagnolo. le esportazioni della romagna nel mondo sono quindi tre: la piadina, Fellini e il liscio, anche se quella importante delle tre è senza ombra di dubbio la piadina.

– non so se alle sagre di paese trovi sempre l’eccellenza assoluta dei prodotti tipici, magari a volte ti fregano pure, però so che se compri una bottiglia d’olio a una sagra organizzata da un oleificio romagnolo difficilmente resterai deluso, e posso garantirti che qualunque bottiglia di barbera tu apra a una sagra nel Monferrato non te ne resterà da portarne a casa. potrai invece assistere a un curioso fenomeno fisico: appena poggiata sul tavolo interverrà un processo di evaporazione straordinariamente rapido.

– se la zona cucina è composta da una barriera di onduline in lamiera più lunga di un furgone dietro cui da ore alcuni paioli giganti e molto anneriti cuociono pasta e fagioli e cotiche, spezzatino coi piselli e altre amenità, difficilmente tornerai a casa con la fame.

– il salamino alla fine è un è cotechino. non chiedetemi se il salamino è più o meno buono del cotechino e dello zampone perché sono emiliano e non posso rispondere.

– non c’è scampo all’intervista con l’autore: ormai persino alla sagra di paese in piena campagna ti tocca l’evento letterario ;)

– alla sagra del salamino di Moncestino nessuno resta senza cibo.

 

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la gallery:

 

come to EXPO if you have to, but visit Turin

I will probably come off as a bit of a dick to my Milan friends, but the best advice I can give to someone who goes  to Milan for the EXPO, is to discover Turin.

no, really, do it. if you live far away you may not have another chance to see Turin, and you’d miss one of the most beautiful, fascinating and complete italian cities.

Milan is ok for the EXPO and the interiors and the museums and for a lot of modern, shoppingy, modernartsy stuff, but Turin really is THE city you have to see in Northern Italy. provided especially if it’s a sunny, clear day.

also: wine. you have no idea about the wine. and the food. really. you can thank me later.

 

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Buone ragioni per andare alla Molo Street Parade e cose da fare quando sei là

Beh, la Molo Street Parade è un affare strano, perché pensi che sia un concerto e la affronti come tale, però quando ci arrivi scopri che non è un evento ma un processo, un nastro di possibilità che costringe a esplorazioni e scelte, come quando vai al bar e c’è la vetrina dei cornetti che non sai mai se dentro c’è la marmellata o la Nutella.

In un un serpentone di DJ set suonati a bordo di 12 pescherecci lungo un chilometro di porto c’è sempre qualcosa che – lo senti – sta succedendo da un’altra parte, il che all’inizio ti spiazza e ti costringe a spostarti continuamente da una barca all’altra. Presto sei sudato come un russo e capisci che non è la strategia migliore. Poi a un certo punto intuisci più o meno la zona in cui ti piace stare e diventi stanziale – anche perché dalle 22 in poi la ressa è tale che scordati di poter andare da qualunque parte.

Ma la Molo non è solo stare davanti a una barca a ballare, ci sono un sacco di altre cose che si possono fare, soprattutto se ci vai presto e la vivi come un’intera giornata invece che solo una serata.

Per esempio ti può capitare di girare nel piazzale del porto molto presto nel pomeriggio, quando i tecnici montano e provano i sound system e i baristi preparano i chioschi. Lì, oltre all’incognita di improvvise bordate di pura violenza sonora che ti fanno la riga ai capelli, può capitarti di fare quattro chiacchiere con la gente che lavora, il che è sempre interessante. E si sa che dove c’è gente che lavora è pieno di umarelli in bicicletta che guardano e fanno commenti. Anche con loro c’è sempre da far chiacchiere, e non si fanno certo pregare per raccontarti le robe dei loro tempi.

Però puoi anche prendertela comoda e sederti sulla spiaggia libera – o sederti al bar del porto a prendere un aperitivo – ascoltando in sottofondo la musica di intrattenimento che le barche suonano nel tardo pomeriggio. Oppure fare la cosa più classica del porto di Rimini: l’aperitivo con la posta del sol al Rock Island.

Poi la Ruota, naturalmente. Che non sarà l’idea originale del decennio, ma ha rappresentato da subito un punto di riferimento fondamentale nella skyline bassa e uniforme di Marina Centro. Almeno una volta, lo sanno tutti, un giro sulla ruota va fatto, e la Molo Street Parade è una delle migliori occasioni per farlo. Consigliato il tramonto per romanticismo, o il momento di massima affluenza (dalle 22 in poi) per godere della vista dall’alto dei serpentoni di gente che si allungano sul lungomare e su via Destra del Porto.

Ovviamente mangiare la piadina con i sardoni, che senza godi solo a metà? Anche solo per vedere quelle decine di metri di griglie sfrigolanti e il fumo unto e azzurrino di cottura del pesce azzurro che si alza lentamente nella luce del tramonto, che sembra di stare in Apocalypse Now, e il tutto evoca un girone dantesco. Hell’s Kitchen.

Cuoche e pescatori, poi, sono un concentrato di romagnolità che vale da solo il viaggio. Soprattutto in quell’oretta prima di cena in cui i pescatori scaldano le griglie, preparano i sardoni, bevono vino, e le azdore cuociono le piade e preparano i contorni e i piatti, e si sfottono a vicenda in romagnolo stretto da una parte all’altra della strada.

I tecnici del suono e i paraphernalia del live. I palchi, le console, i macbook, le tastiere e i mixer, le strutture per le luci, gli impianti del CO2 per i fumi, tutta l’attrezzatura tecnologica e meccanica dei DJ set che viene issata a bordo, montata e provata a due metri da te per la gioia degli umarelli e dei fan di Come è fatto.

I volontari delle ambulanze, che sono presenti ma non li noti mai, che sono pronti a qualunque evenienza però sperano di non dover fare niente per tutta la sera. Ma ci sono, stanno in piedi in un angolo e stanno sobri per noi.

Ma anche i DJ, le star della serata che alla fine sono quelli che fanno ballare, la ragione originale per cui siamo qui, che mettono in prima linea la loro professionalità e spesso aprono per altri più famosi, sotto al sole, coi display in piena luce e in condizioni di lavoro decisamente non ottimali.

Ma soprattutto, perdonate la nota sentimentale, tutti voi e tutti noi, a chi viene per ballare e a chi viene per baciarsi, a chi capita quasi per caso con la famiglia o gli amici al pomeriggio per fare un giro in bici sulla ciclabile, poi finisce per fermarsi a cenare a piada e sardoni e sedersi sul muretto a bere birra e godersi il tramonto e finisce a ballare fino all’una di notte, e torna a casa stanco, sudato e forse un po’ più felice.

A chi fa tutto questo e sta sereno.

 

Stai sereno alla Molo Street Parade

Vedi tutte le foto della Molo Street Parade nella gallery su Google+

La Molo Street Parade è al Porto di Rimini, sabato 28 giugno, dalle 18 all’1.

 

Vacanze a Ibiza: come e soprattutto perché farle

L’idea che ha di Ibiza chi non c’è mai stato è molto simile a quella che altrettanto spesso ha di Rimini: caotica in alta stagione, priva di stimoli in bassa stagione, nazionalpopolare. Vorremmo qui dimostrarvi che se nel caso di Rimini il pregiudizio può anche essere corretto, nel caso di Ibiza sbaglia in due punti su tre.

L’alta stagione a Ibiza o Palma non è certo il genere di vacanza da consigliare a chi ama la tranquillità: in quel caso andrebbe presa in considerazione Formentera. Ma in bassa stagione, quanto a natura e paesaggi, Ibiza è una località molto godibile – forse persino più godibile che in alta.

Clima spesso mite, spiagge deserte – a Ibiza ci sono una quarantina di cale, ciascuna con un paio di spiagge – ma servizi di base comunque disponibili, e qualunque punto dell’isola raggiungibile in un’oretta in automobile, quasi necessaria se si desidera visitare davvero l’isola.

Sulla nazionalpopolarità c’è un equivoco: non so se in agosto l’isola si riempia di lumpenproletariato discotecaro, ma in bassa stagione emerge chiaramente il fatto che Ibiza (nel senso di Eivissa, la città capoluogo, ma anche nel senso di isola) è piuttosto stilosa negli allestimenti, esteticamente curata e ricca di stimoli, se non culturali almeno estetici.

Eivissa ha l’allure chic di una (inserisci qui la tua località turistica chic a scelta) ma a differenza di, per restare nell’esempio iniziale, Riccione, è una città vera, un avamposto mediterraneo dell’impero spagnolo composto di cerchie labirintiche di casette bianche abbaglianti che oggi ospitano microatelier di fashion e design e si snodano attorno alla base di una fortezza – rocca, la chiameremmo in Romagna – difesa da quattro enormi bastioni dai quali si gode una vista circolare spettacolare sulla città, sul porto e sul mare. Un’occhiata alla mappa è sufficiente a comprendere la spettacolarità dell’ambientazione: quella che sfugge nella visione aerea è la bellezza della città alta.

 

eivissa / ibiza

 

Ibiza è un’isola estremamente gradevole, oltre che climaticamente (ad aprile e ottobre magari non si fa il bagno, ma ci si abbronza seriamente) anche dal punto di vista della conformazione e naturalistico. Verdissima, per essere più o meno all’altezza di Sicilia e Grecia, ricoperta di macchia mediterranea alta e piuttosto rigogliosa, circondata da scogliere e coste frastagliate (a me ricorda un incrocio tra il Gargano e per altri versi la Sardegna), piene di calette e panorami gradevolissimi, a partire dal famoso Es Vedrà, enorme sassone piantato in mezzo al mare, la cui vista dalla spiaggia di Cala d’Hort è davvero notevole.

E girare di cala in cala è davvero una delle attività più gratificanti. Posso garantire che noleggiare un’auto (circa 35 euro/giorno) e percorrere l’isola in lungo e in largo sulle strade impeccabilmente asfaltate, con la house leggera di Ibiza Global Radio in sottofondo, lava via gran parte dello stress, dei pensieri e delle preoccupazioni. Fanno il resto del lavoro i ristoranti sulla spiaggia che servono paella, pesce fresco e aioli, e i ristoranti dei paesini che hanno la cucina aperta fino a mezzanotte e mezza (i ritmi e i tempi sono se possibile, ancora più rilassati di quelli spagnoli continentali) e ti accolgono con una varietà di tapas di pesce fresche, o con menu di cucina locale leggermente influenzata dalle tante presenze internazionali che hanno visitato e animato l’isola nel Novecento e prima.

Ma è un’altra la caratteristica dell’isola di cui forse vale più la pena di parlare, quella che resta più impressa, giustifica più il viaggio, e caratterizza più Ibiza rispetto alla maggior parte delle altre mete turistiche del Mediterraneo. Potrei definirla solo come atmosfera (l’inglese ha termini più adatti: feeling, mood, ambience, vibe). Ibiza è un’enclave hippie fin dai tempi in cui vi si rifugiò una comunità piuttosto varia di oppositori alla dittatura franchista, e l’hippismo, nell’aspetto e nelle pratiche, resta presente, concentrato soprattutto in alcune località dell’interno (il mercato di Las Dalias è la più nota) e in altri fenomeni locali, come il bonghismo sulla spiaggia di Benirràs.

Più in generale, la tipica tolleranza della cultura hippie, insieme alla distanza dalla madrepatria e a una natura che favorisce la contemplazione, ha alimentato un modo di vivere rilassato e introspettivo, uno stile di vita che aleggia nell’aria da cui non si può evitare di essere contagiati, e di cui la musica ambient/chillout e la posta del sol, il rito della contemplazione del tramonto, sono le manifestazioni esteriori più visibili. L’impressione che si ha dopo qualche giorno di permanenza è che Ibiza sia soprattutto e prima di tutto un’isola serena, in cui le persone sembrano vivere e convivere, se non in completa armonia, in modo emotivamente e socialmente sostenibile. A Ibiza ho avuto la sensazione che tutti attorno a me se la stessero godendo (la giornata, la vacanza, la vita) quanto me. Non è mica poco, e non posso dire lo stesso di molti posti che abbia visitato.

La mia gallery delle foto di Ibiza (su Google+)

Tre indirizzi di ristoranti a Sant Antoni, soddisfazione garantita:

El Rincon de Pepe, taperia suprema, San Mateo 6, Sant Antoni de Portmany
(Il difficile è smettere di ordinare tapas di pesce)

Es reboost de can prats, cucina locale curata in una casa deliziosa, c/cervantes 4, Sant Antoni de Portmany
(Quei posti dove ti viene voglia di abbracciare i proprietari)

Can Pujol, Calle de Caló, 97, 07610 Sant Josep de la Talaia
(La grigliata di pesce come dovrebbe essere)

 

Classica “posta del sol” sulla costa a sud di Sant Antoni de Portmany