La libertà di ridere alle burattinate di regime

Mi è successa una cosa curiosa. Come scrivevo nel post precedente, all’Expo abbiamo visitato il padiglione della Thailandia, nel quale sono proiettati tre film di pura propaganda di regime. Robe tipo “in Thailandia le sementi germogliano rigogliose grazie alla generosità del nostro grande Re”: una roba davvero da far accapponare la pelle, persino difficile da credere se non si viaggia spesso in paesi in cui vigono regimi non democratici.

Sono filmati talmente grotteschi che in un paio di momenti ho riso forte. All’uscita mi sono reso conto che potevo permettermi di ridere durante la proiezione solo grazie al fatto di essere cittadino di un paese in cui vige la piena libertà di espressione. Se fossi stato un thailandese in Thailandia – assurdamente, forse persino un thailandese in Italia – non avrei potuto godere della stessa libertà. Se al ridere aggiungiamo: votare, dire la propria opinione, scrivere quello che si pensa – anche le abominevoli minchiate che scriviamo ogni giorno sui social media – insomma, queste libertà sono qualcosa a cui non pensiamo quasi mai, di cui forse non siamo grati abbastanza spesso.

E grati non che ci siano concesse da una classe politica magnanima, ma di essercele conquistate in decenni di lotte che hanno piantato dei paletti democratici che finora si sono dimostrati molto solidi. Grazie, di nuovo, a noi che abbiamo continuato a difenderli, anche solo votando. La libertà non è un dono di Dio – men che meno della Chiesa – ma una conquista umana.

Oggi in Europa sembra avanzare un pensiero che usa strumenti retorici di forte impatto emozionale come la paura dell’immigrazione o la teoria della “troppa libertà di espressione” in Rete per cercare di riportare indietro la lancetta su paletti democratici acquisiti come alcuni diritti civili e umani. Ungheria e Turchia sono i due casi vicini a noi più visibili, in altri paesi è più strisciante ma altrettanto pericoloso; alcuni echi si sentono persino da noi, nel famoso paese reale. La limitazione delle libertà si legittima sempre attraverso la paura.

La prossima volta che dobbiamo decidere cosa votare – e lo dico anche al me stesso che sta pensando di non farlo – magari ricordiamoci dei thailandesi che non possono ridere alle minchiate della loro propaganda di regime, perché anche se siamo nati e cresciuti in piena libertà di espressione, anche se non abbiamo mai conosciuto niente di diverso, generazioni fortunate che non siamo altro, niente è mai per sempre, niente va dato per scontato.

La Thailandia vive in regime di legge marziale a seguito del colpo di stato del maggio 2014. Secondo Amnesty International sono all’ordine del giorno violazioni dei diritti umani e civili come torture, arresti e detenzioni arbitrarie, processi sommari, rapimenti e sparizioni di attivisti democratici.

 

thai

fare i democratici col culo degli altri

la classe politica non ha esitato a celebrare il fatto che l’avvento di un media disruptive (che significa rivoluzionario, non distruttivo) come Internet abbia radicalmente mutato i rapporti tra potere e popolazione nei paesi in via di sviluppo, i cui popoli chiedono maggiore partecipazione ai processi della politica e maggiore responsabilità dei governanti nel prendere decisioni in trasparenza e negoziarle con una popolazione resa più unita e organizzata dalla forza del Network.

la nostra società vede positivamente il fatto che la Rete ci consenta maggiore partecipazione, più forza e capacità di pressione nell’orientare l’offerta di mercato delle aziende e le scelte delle istituzioni e dei fornitori di servizi.

troviamo positivo il fatto che l’avvento di Internet abbia mutato i rapporti di potere nel panorama dei media, portando maggiore trasparenza da parte degli editori, maggiore impegno e responsabilità da parte dei giornalisti, maggiori opportunità di partecipazione ai lettori e agli spettatori.

quindi perché, in un paese in cui il voto è virtualmente svuotato non solo della possibilità di partecipare alle decisioni, ma persino di ogni rappresentanza, facciamo così fatica ad accettare che l’avvento di Internet possa mutare i rapporti tra potere e cittadinanza ANCHE in una democrazia come la nostra, che come tutti i sistemi politici non possiamo non considerare sempre migliorabile? perché siamo convinti che il nostro sistema democratico rappresentativo così come è oggi debba essere immutabile, non possa essere migliorato attraverso nuove modalità partecipative, così come è sta accadendo ad altri sistemi, politici e non?

perché facciamo – non solo la nostra classe politica, ma anche noi come elettori – tanta fatica a immaginare la possibilità che un nuovo contratto sociale, basato sul dialogo e la negoziazione continua tra le amministrazioni locali e nazionali, la società civile, le comunità locali rese più unite e organizzate dalla forza del Network, consenta al nostro sistema elettorale, superato, ormai quasi feudale, di acquisire maggiore trasparenza e maggiore partecipazione alle scelte della politica da parte degli elettori? cosa ci fa pensare di avere un sistema perfetto? e non abbiamo già verificato che non lo è affatto? quali altre dimostrazioni servono?

perché la classe politica non capisce che quello che conta non sono le parole, le facce o le singole istanze portate avanti da quei movimenti, ma il fatto che rappresentano una richiesta di cambiamento concreto (anche verso direzioni piuttosto chiare) e non capisce che la sua stessa sopravvivenza dipende dal saper dare risposte a bisogni di trasparenza e partecipazione crescenti, maggioritari, resi sempre più potenti dai new media? come può pensare di esorcizzarli chiamandoli antipolitica?

perché il cambiamento in direzione della partecipazione, della possibilità di incidere di persona, è benvenuto nel mercato, nel panorama dei media, nelle altre nazioni, ma non quando viene richiesto dalla nostra società? perché assumiamo improvvisamente un atteggiamento reazionario di rigidità e rifiuto rispetto all’emersione di movimenti che, pur con metodi discutibili o poco ortodossi, chiedono quello che ogni cittadino, ognuno di noi in fondo desidera: una democrazia più vera, più partecipativa, con meno spazi per un sistema di delega in bianco che lascia l’elettore svuotato di ogni possibilità di cambiare le cose, di esprimere in prima persona le proprie opinioni, obiezioni, soluzioni?

insomma, perché quando emergono movimenti che chiedono un sistema di rappresentanza più moderno, partecipativo, trasparente e rappresentativo, siamo proprio noi i primi ad avere un rifiuto a priori, così antistorico, antimodernista, destinato a fallire?
qual è il tabù che è stato toccato? cosa sentiamo messo in pericolo?