stiamo diventando tutti delle seghine, e lo sappiamo

Questa è una delle mie solite tirate, quindi non prendetela troppo sul serio perché tendo a diventare ossessivo sulle cose che mi colpiscono particolarmente.

Ieri sera ho fatto due passi, anche per godermi una serata di fine estate che mi sembrava molto gradevole, persino calda. Perché se a fine settembre alle dieci di sera ci sono 20°, per me quello è un prolungamento di estate, non un autunno anticipato. E sarò strano, ma con 20° io esco in t-shirt: se con 20° in casa sto in t-shirt e fuori sono 20° e non piove o c’è vento, io esco in t-shirt.

Passeggiando ho incontrato solo un’altra persona in t-shirt, il che è irrilevante, ma quello che mi ha colpito è che il 99% delle persone avevano addosso non una camicia o il maglioncino di cotone che mi aspettavo, ma giacche di pelle, piumini, giacconi invernali. Ho visto una con la sciarpa di lana.

Ora, ognuno fa quello che gli pare eccetera, ma secondo me potrebbe esserci qualcosa che non va in una società che ritiene che 20° siano una temperatura adeguata per tirare fuori il piumino dall’armadio.

Se 20° sono considerati in gran parte del mondo una temperatura più che adatta per la vita quotidiana dell’essere umano, perché nella nostra società le case vengono riscaldate in inverno a 23 o 24°, e con 20° esterni ci vestiamo come se fossero 8°?

Non ne faccio una questione ambientale – anche se lo sarebbe: riscaldare troppo è un lusso che già non ci potremmo permettere – né economica, anche se lo sarebbe: l’inevitabile aumento graduale del costo dei carburanti e la compressione dei salari verso il basso renderà prima o poi sconsigliabile per le economie vivere a 25° in inverno e 18° in estate, che è già di per sé un paradosso.

L’idea consumista e tecnocratica che il mondo debba essere trasformato attraverso le tecnologie nell’ambiente più confortevole possibile per una sola specie, cercando di uniformare tutti gli ambienti in cui l’uomo trascorre il tempo, persino all’esterno (ah no? e i funghi a butano fuori dai locali?) non solo è, se chiedete a me, follia pura, ma ha già dimostrato di non essere sostenibile.

Non ne voglio fare nemmeno una questione di pigrizia o di essere viziati, anche se lo è: come il mangiare troppo o l’acquistare troppe cose, lo scaldare/scaldarsi troppo è nella maggior parte dei casi una questione di abitudine, di autoindulgenza, che in un malsano equivoco viene confusa con il comfort.

Entro certi limiti la sensazione di calore è non solo soggettiva ma adattiva: più alziamo il termostato (o lo abbassiamo in estate) nei luoghi in cui viviamo e lavoriamo, più ci rendiamo incapaci di vivere confortevolmente nelle temperature che sono naturali all’esterno, più ci rinchiudiamo in ambienti e controllati. E sta proprio qui il punto.

Non è, tutto ciò, l’ulteriore dimostrazione che stiamo sempre più alienandoci dalle condizioni di vita naturali in cui la nostra specie, fino a qualche decina di anni fa, sapere vivere benissimo? Non stiamo ulteriormente ripudiando l’ambiente in cui viviamo?

Costruendo (necessariamente) le città, ci siamo del tutto rimossi dall’ambiente che ci circonda – che sarebbe fatto di alberi e prati e rocce e spiagge, mentre oggi sono rimaste solo due foreste degne di questo nome al mondo.

Passiamo le nostre giornate in uffici rinunciando a vivere nel ciclo di luce/buio naturale, alteriamo la temperatura dei luoghi in cui viviamo, scaldando i nostri corpi oltre qualunque condizione naturale: che temperatura raggiunge il corpo di uno che indossa una giacca da sci con 20°?

Passiamo le nostre vite in ambienti con illuminazioni fasulle e temperature artificiali: la casa, l’automobile, l’ufficio, il ristorante, il cinema. Viviamo le nostre giornate in ufficio immersi in luci artificiali, spesso malsane e fastidiose. Ci nutriamo sempre più spesso di cibi che hanno subito una serie infinita di trasformazioni industriali, l’ultima delle quali è cercare di ridare loro un aspetto naturale. Ci curiamo troppo con medicine troppo potenti che stanno rischiando di annientare le nostre difese da batteri e microbi. Ci muoviamo esclusivamente su mezzi alimentati da energie esterne, tanto che dobbiamo recarci in automobile due volte alla settimana in ambienti (riscaldati, illuminati al neon) progettati per fare quello che non facciamo nel nostro quotidiano, cioè bruciare calorie.

Ora io non voglio fare l’hippy e nemmeno l’ambientalista radicale: sono del tutto consapevole dell’opportunità di usare le tecnologie per rendere il pianeta più vivibile alla maggior parte della specie umana. Ma più vivibile significa costruire dighe, aumentare la resa dei raccolti, combattere le malattie: non abituare noi stessi a vivere confortevolmente solo in ambienti con un range di temperatura di un grado, senza contatto con batteri, mangiando cibo industriale, senza camminare mai per più di 300 metri, poi vivendo male a causa di tute queste cose.

La scelta del tutto irrazionale di indossare il piumino con 20° è solo simbolica di una questione molto più grande, cioè che stiamo diventando delle seghine: da una parte viziandoci e assecondando bisogni estremi, ipertrofizzati che sono la parodia di bisogni reali; dall’altra parte costruendo e vivendo in una realtà sempre più artificiale, che non ha nulla a che fare con il mondo esterno, e che ci aliena sempre più dal resto del pianeta.

In un momento storico in cui potemmo trovarci a dover rinunciare – per ragioni ambientali o economiche – a buona parte dei nostri lussi nel giro di pochi decenni, assecondare la nostra pigrizia, estremizzare i nostri vizi e coltivare sempre più bisogni e esigenze di un regnante di metà Novecento forse non è esattamente quello che vogliamo fare. Ma proprio per noi, stessi, più che per il pianeta.

 

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