davanti a un problema, l’approccio più naturale per il cittadino della società moderna è quello di andare a cercare una risposta e/o una soluzione. è talmente ovvio che persino scriverlo sembra imbecille. viviamo in una cultura pragmatica, che ha fatto dell’approccio scientifico una sorta di religione, e finché il problema è del tipo che ci si presenta nella maggior parte dei casi – scegliere un ristorante o chiedere indicazioni stradali – fin qui tutto bene.
però trovare una soluzione alla maggior parte dei problemi, quelli veri, quelli che contano veramente e riguardano la nostra percezione di noi stessi rispetto al mondo che c’è fuori, non è altrettanto facile, meccanico, intuitivo. se stiamo male, istintivamente scegliamo l’approccio a cui siamo abituati: cerchiamo qualcuno che ci dica cosa fare. un medico, un prete, un amico, uno sport; sono entità molto diverse tra loro, ma spesso assumono lo stesso ruolo nelle nostre vite: li scegliamo per avere una risposta, spesso perché speriamo sappiano la risposta che vogliamo avere, spesso addirittura per smettere di pensare alla domanda.
in adolescenza, età in cui il genere di problemi di cui sto parlando è particolarmente frequente e intenso, ci appoggiamo a un’industria culturale che sembra avere delle risposte pronte e valide per tutti. l’oroscopo, la musica, la letteratura dannata che ci fanno sentire così compresi e non soli, sembrano dare risposte facili e comprensibili.
ma non esiste nulla o nessuno che possa dare risposte facili e comprensibili ai nostri problemi, perché nessuno le ha. nessuno ha nemmeno gli stessi problemi, come può avere le soluzioni? quello che serve quando stai male e hai un problema non sono risposte generiche e applicabili a tutti, non è il manualetto di autoaiuto, non è la religione, che traslando il tuo malessere su un piano universale lo annulla e gli toglie qualunque identità, e nemmeno la letteratura, che fa più o meno lo stesso: quello che serve non è cercare le risposte ma le domande. citando douglas adams, la soluzione non è 42, ma la domanda a cui la risposta è 42.
per esempio non ci chiediamo quasi mai perché abbiamo fatto una certa cosa. e se ce lo chiediamo non consideriamo mai spiegazioni alternative alla prima che ci viene in mente, e di solito ci rassicura e conferma nella nostra visione di noi stessi. non siamo culturalmente, o forse persino geneticamente progettati per considerare motivazioni alternative alle nostre scelte che non siano la prima che ci viene in mente (che in genere conferma l’immagine che abbiamo di noi stessi), che vadano in conflitto con come ci vediamo, o ancora meglio, con come vogliamo che gli altri ci vedano.
è per questo che la psicoanalisi funziona meglio della religione o di qualunque altro sistema, per avere delle risposte (e non solo delle soluzioni). risposte non te ne dà, perché nessuno te ne può dare, ma ti costringe a farti un sacco di domande: quelle che non hai voglia di farti, quelle da cui stai fuggendo attraverso la ricerca di risposte. è curioso che l’immagine dell’analista nella concezione di chi non ha mai fatto analisi sia quella del medico o del prete: immaginiamo di sederci, che il tipo sulla poltrona ci chieda che cos’abbiamo, quindi faccia una diagnosi professionale con parole complicate (la psicoanalisi ne ha un sacco, ma non te le dice mai perché, a differenza della medicina, non fa una correlazione diretta tra diagnosi e cura). poi immaginiamo che ci dia la cura, il tipo di cura a cui ci hanno abituati il medico e il prete: le benzodiazepine o venti ave maria due volte al giorno.
l’analista invece ti guarda strano e ti fa delle domande che non capisci, a cui non hai risposte (per forza: sei lì per quello) e che ti mettono a disagio e ti fanno sentire stupido e molto poco a contatto con te stesso. a volte tace, a volte fa digressioni WTF, a volte sembra non avere idea di cosa ti passi per la testa, e sembra così perché è così: non ha idea di cosa ti passi per la testa. né lui, né il medico, né l’amico, né il parroco. e come potrebbero?
però a differenza degli altri tre, l’analista ha un metodo che ha visto un tasso di successo probabilmente superiore a quello degli altri tre soggetti messi assieme: ti mette sulla sua sedia e ti costringe a interrogare te stesso con le domande che contano, quelle che non vuoi sentirti fare. perché la risposta non sono le risposte, “la” risposta forse non c’è neanche, e sicuramente non ce l’ha nessun altro al di fuori di te.
tutto questo sembra uno spottone per la psicoanalisi ma non lo è: il punto è che nemmeno “andare in analisi” è una soluzione di per sé. il punto è che se non riesci a farti le domande che non ti vuoi fare, ad accettare che esistono e che sono l’unica strada per affrontare il problema, se non cerchi di capire quali sono, qualunque struttura politica, religiosa, scientifica, artistica o sportiva trovi a cui appoggiarti non sarà mai la soluzione, ma solo un modo di evitare il problema.
o, detto in modo più elegante da un qualche monaco buddista anonimo e probabilmente apocrifo: Se la risposta non è dentro di te, dove la cercherai?