Non credo sia una forzatura affermare che il dibattito sul futuro della società digitale tende a polarizzarsi sui fronti contrapposti della distopia e dell’utopia (se non proprio utopia, perlomeno del positivismo). L’anno scorso lo scrittore Bruce Sterling ha pubblicato un pamphlet distopico intitolato “The Epic Struggle of the Internet of Things“, in cui mette in guardia su un tema: l’Internet delle Cose non sarà affatto il movimento di liberazione e avanzamento tecnologico che ci viene prospettato oggi, poiché non avrà affatto gli obiettivi che oggi dichiarano i suoi proponenti.
Se c’è qualcosa che dovremmo avere imparato dalla storia di Internet, dice Sterling, è che la promessa di un futuro di maggiori libertà, pace sociale, ubiquità dell’accesso incondizionato a tutta l’informazione, e gli avanzamenti sociali che dovrebbero seguirne, “is not how things work in real life“.
Anche nel caso dell’Internet delle Cose (IoT), i soggetti che vi lavorano seguono un’agenda che ha obiettivi non coincidenti con il bene comune, e agiranno in modo da perseguire quegli obiettivi: è quello che hanno fatto finora Facebook, Google, Amazon, Apple, ed è quello che continueranno a fare perché non c’è ragione che non continuino a farlo.
Il prodotto che genera valore continueremo ad essere noi e i dati che generiamo con i nostri comportamenti; l’obiettivo da raggiungere attraverso l’IoT sarà quello di prendere il controllo della maggior parte del “terreno industriale” possibile: reti informative, naturalmente, ma anche reti elettriche, sistemi dei trasporti e di distribuzione dell’acqua e delle materie prime, sistemi di risposta all’emergenza e di controllo sociale (polizia, carceri), produzione industriale, storage, distribuzione, logistica.
Applicare le realtà attuali a una visione futura è sempre un esercizio rischioso, e infatti Sterling non lo fa, ma senza la pretesa di fare della futurologia, non è difficile immaginare un futuro in cui le big attuali – o quelle future – acquisiscano, come è loro natura e inevitabile destino fare, il controllo delle Reti, Canali, Processi che governano il mondo fisico, oltre che digitale.
Facebook, per esempio, non avrebbe difficoltà a gestire la logistica delle nostre relazioni sociali, dal lavoro alla scuola al tempo libero, sapendo chi dobbiamo vedere, dove dobbiamo andare, ed essendo già oggi teoricamente in grado di prevedere tramite algoritmi di probabilità le nostre azioni e relazioni future (incluso, pare, chi sposeremo).
Google sarebbe in grado di garantire non solo il trasporto attraverso una rete di smart car elettriche collettive (sorry, Uber: appena nata eri già old school), ma anche il “trasporto dell’informazione“, fino a essere in grado di decidere che cosa è meglio per noi studiare, in quale ruolo e carriera saremo più produttivi, quali notizie fanno per noi e quali no, che cosa dovremmo/possiamo leggere e venire a sapere, ma anche cosa no.
Amazon, che, pur essendo la Cenerentola tra le big, ha il vantaggio dell’esperienza sulla logistica e la distribuzione dei prodotti, cercherebbe probabilmente di governare la distribuzione dei beni fisici di cui abbiamo necessità, dai viveri alle medicine, dall’acqua agli strumenti fisici di accesso al mondo digitale. D’altra parte sa già cosa ci serve, quando ne abbiamo bisogno, dove lo usiamo.
Se non consideriamo Apple e Microsoft depositarie di flussi di informazioni strategici, basta rendersi conto che sarebbero nell’invidiabile posizione di avere non solo le informazioni su tutto ciò che le persone scrivono sui computer, ma un microfono e una telecamera 24/7 nella vita delle persone, e il controllo finale degli schermi su cui le informazioni appaiono.
Chi trovasse eccessivo l’allarme sulla divergenza tra i reali bisogni della società e gli obiettivi di quelle che oggi possono sembrare solo bonarie realtà di entertainment, dimentica che già oggi i grandi gestori dell’informazione non hanno affatto come bussola principale il bene per la società, ma il profitto dei loro stakeholder (finanziatori, azionisti, inserzionisti). Nessuna di queste realtà farebbe mai qualcosa che la mettesse in conflitto con gli interessi degli stakeholder. Non potrebbe né dovrebbe, poiché ciò non è nella natura del tipo di mercato in cui operano e sulle cui regole si sono formate: quello capitalista.
Certo, tutti – quasi tutti – i mutamenti che abbiamo ipotizzato possono essere visti sotto una luce utopica o sotto una distopica: quello che cambia è il tipo di ideologia con cui li si interpreta (positivista, critica, persino luddista o marxista, come nel caso di Paul Mason e il suo PostCapitalism: A Guide to our Future) ma una cosa è probabile: un cambiamento del genere avrebbe un effetto sociale molto più incisivo e rivoluzionario di qualunque cosa abbiamo visto negli ultimi 100 anni; genererebbe una mutazione fondamentale del tipo di società in cui viviamo, sui rapporti di potere all’interno di essa, sulle modalità con cui le merci, il lavoro e l’informazione sono acquisite, scambiate, pagate, accedute. Una società postcapitalista in cui tutto il potere sarebbe concentrato in chi detiene non più solo l’informazione, ma anche i canali per accedervi.