II post più commentato della settimana su Friendfeed è un classico flame (quindi niente di nuovo) che parte da un tweet critico verso Friendfeed (anche qui niente di sorprendente) scritto da una persona con una certa visibilità professionale su Internet (e pure qui è difficile stupirsi). Chi volesse leggerlo lo trova qui, a me non interessa esprimere un parere.
Il merito del dibattito, almeno inizialmente, riguarda se sia vero o meno che molte persone se ne vanno da Friendfeed, e, se è vero, perché questo accada.
Io non so se sia vero, non ho dati né credo li abbia nessuno, posso solo osservare empiricamente che tutte le persone che frequento abitualmente, me compreso, che qualche anno fa erano molto attive su Friendfeed, oggi o hanno chiuso il profilo oppure non lo usano se non per lurkare ogni tanto.
Però quello che mi interessa non è affermare che ci sia una diaspora da Friendfeed (non è detto: può esserci un ricambio) ma capire perché quelli che se ne vanno se ne vanno o mantengono un profilo inattivo. Un’ipotesi ce l’ho e vale quel che vale, cioè uno.
L’internet delle origini era esclusivamente testuale, quindi per forza di cose fortemente conversazionale: dai forum alle mailing list ai newsgroup, lo scopo della presenza online era la conoscenza, la conversazione, il dibattito, la discussione, anche accesa. Fin dall’inizio un elevato grado di conflittualità negli ambienti online è stato considerato normale: chi è cresciuto in quegli ambienti ha dovuto abituarcisi in fretta, e non è stato un prezzo troppo alto, per scoprire la socialità online.
Per molti partecipare a flame e altre manifestazioni di conflitto online era ed è tuttora una scelta: la dimostrazione di appartenere a una tribù libera, priva di autorità, che rifiuta il bon ton bourgeois e il buonismo. Per alcuni si tratta di una sorta di ribellismo culturale, altri hanno trovato nel litigio online una loro realizzazione o comunque una dimensione di intrattenimento, altri ancora hanno maturato la consapevolezza che per avere la massima libertà di espressione possibile devi accettare i lati più aspri e conflittuali di un ambiente libero, anche difenderne gli spazi di autonomia. Queste persone sembrano condividere una visione del conflitto come intellettualmente fecondo.
Per altre persone, però, convivere con il conflitto continuo, anche oltre le normali esigenze del dibattito, non è stata una scelta ma una necessità. Fino a un certo punto l’hanno accettata di buon grado, ma quando sono comparsi ambienti caratterizzati da un confronto meno aspro e più meditato hanno deciso di trasferirvisi. Se chiedessimo alle persone che sono uscite da Friendfeed, sospetto che scopriremmo che una delle motivazioni principali per evitare gli ambienti di rete conflittuali è quella che i teenager intervistati al riguardo negli USA definiscono “too much drama”. Troppa tensione, troppi conflitti, troppe persone che sembrano volersi mettere in mostra attraverso l’aggressività, trovare una realizzazione personale nell’aggressione verbale e in quello che è qualcosa di più di un dibattito acceso.
Il drama è, in altre parole, tutto quello scazzo e quelle noie (sul lavoro, in famiglia, a scuola, tra amici e amiche) di cui faremmo volentieri a meno e che non possiamo più permetterci emotivamente. Con l’avvento dei nuovi media il carico informativo sulle nostre vite è aumentato rapidamente: la strategia di sopravvivenza è di liberarsi di tutte le informazioni che sono inutili o troppo stressanti; per molti adulti, anche quelli che ci sono cresciuti, i litigi online sono ormai diventati psicologicamente una zavorra. Non è solo questione di non potersela più permettere nelle proprie vite: per molti liberarsi di questa zavorra è anche un modo di crescere emotivamente e – nella misura in cui il conflitto si sostituisce alla ricerca di una sintesi come scopo finale – anche di crescere culturalmente.
Update: è nata una discussione su friendfeed in cui (da parte di quasi tutti) si argomenta con critiche sensate a questo post, soprattutto, comprensibilmente, alla conclusione, che so essere arbitraria.