Ho finito di leggere Giorni Selvaggi, in originale Barbarian Days: A Surfing Life, l’autobiografia del giornalista del New Yorker William Finnegan, premiata con il Pulitzer 2016 per le biografie.
L’ho finito con un certo sforzo, perché le oltre 500 pagine del racconto di una vita vista attraverso la lente di una passione di nicchia come il surf – uno sport tecnico, oscuro, i cui riti e la cui terminologia appaiono quasi esoterici al profano – ti mettono alla prova, sia nel comprendere le decine di casi in cui l’autore narra le complesse dinamiche fisiche della creazione di un’onda e le tecniche con cui viene affrontata, che nell’adattarsi a un romanzo autobiografico in cui la vita “vera” (il lavoro, gli amori, le famiglie) è uno scenario secondario rispetto al surf.
Ribaltando le priorità della narrazione, Finnegan fa capire quanto una passione possa essere assoluta e totalizzante, tanto da divorare tutto il tempo libero e modellare in base ai propri tempi e spazi il resto della vita del protagonista, socialità, professione e affetti inclusi.
E se c’è qualcosa che il surf ti insegna nella vita, mi pare di capire, è l’umiltà: un’onda si racconta sempre più bassa di quanto fosse in realtà, non si gioisce quasi mai di una propria evoluzione, la vita è spesa alla ricerca di un’onda più alta e più difficile, non da conquistare ma da affrontare con rispetto.
Tutta questa umiltà e understatement da disciplina orientale non fanno bene all’emotività del surfista, che vive buona parte della sua vita come una specie di missione individuale (il surf è un’attività intrinsecamente solitaria: su un’onda si sta sempre da soli) a scapito della socialità, della costruzione di una carriera, una famiglia, una casa.
Ma se si vive una vita “normale”, leggendo Giorni selvaggi viene da chiedersi come sia possibile far stare in una vita tutte quelle onde, tutti quei paesi visitati, tutte quelle guerre raccontate (l’autore è stato reporter internazionale, spesso di guerra, per decenni) tutti quei diari scritti. Finnegan ha meticolosamente rendicontato ogni giornata della sua vita su centinaia di diari che deve essersi portato dietro per mezza vita e molte migliaia di chilometri – insieme a decine di assi da surf.
E leggendo il libro tutte quelle parole, tutti quei chilometri, tutte quelle onde, le senti una per una, in una scrittura per niente narcisista ma umile nella sua linearità, per quanto con una notevole proprietà di linguaggio: il verbo o l’aggettivo che Finnegan sceglie è sempre il meno scontato e il più efficace. Non una lettura facile né breve, ma una lettura che ti fa riflettere sulle scelte di vita – soprattutto sulla necessità di farle, delle scelte – sul significato e l’impegno di avere una sola passione assoluta e totale, sulle priorità, sui modi in cui si possono investire e far contare i decenni di salute e forza fisica che abbiamo a disposizione, e sul fatto che comunque tu scelga, passerai tutta la vita a chiederti se hai fatto le scelte giuste (almeno se se sei una persona sana).
Se hai un figlio o nipote post-adolescente e non hai timore dell’eventuale senso di colpa futuro di averlo spinto a una vita nomade, al posto tuo glielo regalerei, perché uno stile di vita di questo tipo (non solo viaggiare, non solo annullarsi in una passione, ma anche inventarsi un mestiere dalla scrittura che ti consenta una vita di libertà) a vent’anni fai fatica anche solo a immaginarlo, in una modalità realizzabile.
E non voglio dire che Giorni selvaggi sia l’On the road dei millennials perché sarebbe un paragone sbagliato per diverse ragioni, ma che oggi per alcuni teenager possa rappresentare una fonte di ispirazione simile, forse questo sì.